- Mastoplastica additiva
- Focus on: Protesi mammarie
- Focus on: Protesi tonde o anatomiche?
- Focus on: Protesi sottomuscolo o sottoghiandola?
- Focus on: Sede di incisione
- Focus on: Protesi mammarie e allattamento
- Focus on: Contrattura capsulare
- Focus on: Mastoplastica additiva ed esami radiologici
La mastoplastica additiva costituisce l’intervento più richiesto nell’ambito della chirurgia estetica della mammella.
Il modello cui normalmente ci si riferisce per definire la bellezza femminile include, senz’altro, mammelle ben rappresentate.
La correzione dell’ipoplasia mammaria, cioè la scarsa crescita del volume mammario, viene di solito effettuata mediante l’impiego di protesi di forma e volume adeguati alle proporzioni toraciche e alle richieste della paziente.
Le protesi mammarie, da quando sono state introdotte in commercio, hanno subito una notevole evoluzione tecnica e qualitativa. Attualmente la varietà di protesi presente sul mercato, per forma e superficie dell’involucro, risulta molto ampia. Dai numerosi studi condotti, è emerso che:
- Le protesi mammarie non sono cancerogene
- Non inducono l’insorgenza di malattie autoimmuni
- Non controindicano e/o impediscono l’allattamento
- Non scoppiano in aereo
- Non interferiscono e/o limitano i normali screening mammografici e/o ecografici
La protesi può essere inserita attraverso un’incisione periareolare (cioè al confine tra la metà inferiore dell’areola e la cute mammaria) o a livello del solco sottomammario. La scelta dell’una o dell’altra via d’accesso non è sempre interscambiabile, ma a volte preferibile per via di determinate condizioni cliniche. In entrambi i casi, con il passare del tempo le cicatrici sono a stento visibili .
La protesi mammaria, inoltre, può essere inserita, semplificando, su tre diversi piani:
- In sede sottomuscolare totale; la mammella acquista una forma molto naturale, con scarsa visibilità e palpabilità della protesi; vi è, inoltre, minore incidenza di contrattura capsulare (indurimento della protesi per via dell’involucro che la circonda, prodotto dall’organismo), grazie al continuo massaggio esercitato dal muscolo sovrastante
- In sede retromuscolare parziale o tecnica “dual plane”: in questo caso il muscolo pettorale ricopre solo la metà superiore della protesi (rendendone, pertanto, poco apprezzabili i confini), mentre la metà inferiore è in sede retroghiandolare, in modo da diminuire la tendenza alla dislocazione verso l’alto
- In sede retroghiandolare, quando i tessuti cutaneo-sottocutanei e ghiandolari sono già ben presenti. In casi selezionati, si può anche correggere una ptosi di grado lieve, in quanto una protesi retroghiandolare “spinge in avanti” la mammella
L’intervento di mastoplastica additiva dura circa 1 ora / 1 ora e mezza. Alla fine della procedura, normalmente non vengono posizionati drenaggi. Se non in casi particolari, non è necessaria la degenza in clinica, ma l’intervento può essere eseguito in regime di day hospital (la paziente può tornare a casa la sera stessa).
Dopo l’intervento, vi è di norma un po’ di gonfiore e di dolenzia, soprattutto nel caso in cui la protesi venga collocata in sede retromuscolare.
È opportuno evitare di indossare reggiseno con “ferretto” almeno per un paio di mesi. Per circa due settimane è conveniente astenersi da ogni pratica sportiva, che potrà essere in seguito ripresa gradualmente. È preferibile aspettare almeno 4-6 mesi prima di esporsi al sole o di effettuare lampade abbronzanti in topless.
Nel corso degli anni, le protesi mammarie hanno subito molteplici trasformazioni che le hanno rese, oggigiorno, assolutamente sicure. La prima generazione di protesi mammarie risale al 1962 (messe a punto da Cronin-Gerow); erano costituite da uno spesso elastomero di silicone liscio sotto forma di due mezzi gusci, tenuti insieme da una cucitura periferica. Tale guscio era riempito da un gel di silicone moderatamente viscoso. La protesi era, inoltre, dotata di “adesivi” per agevolare il suo fissaggio nella sede adeguata. Questa prima generazione di protesi mammarie era accompagnata, però, da un alto tasso di incidenza di contrattura capsulare (un indurimento dovuto alla reazione dell’organismo). Per ovviare a tale inconveniente, sono state messe a punto delle protesi più innovative.
La seconda generazione di protesi mammarie è stata sviluppata negli anni Settanta e presentava, rispetto alla prima, una capsula più sottile, l’assenza della cucitura periferica e degli “adesivi”. Tali protesi erano riempite con un gel meno viscoso del precedente, al fine di garantire una sensazione più naturale al tatto. Tuttavia, ben presto si vide che queste protesi erano associate a perdite di silicone all’interno della tasca dove erano alloggiate, sia a causa del guscio di silicone più sottile, sia per il gel poco viscoso di cui erano costituite. Infatti, durante l’espianto di queste protesi, anche se intatte, era comune il riscontro di gel filante e appiccicoso di silicone, anche se gli studi non hanno mai evidenziato problemi locali o sistemici significativi.
Lo sviluppo della terza generazione di protesi mammarie risale agli anni Ottanta quando sono state realizzate protesi con un guscio di silicone più resistente, al fine di ridurne il fenomeno dello sgocciolamento (o leakege), diminuendo il rischio di rotture protesiche e migrazione di gel di silicone. Le case produttrici (INAMED e MENTOR) hanno sviluppato un guscio protesico costituito da lamine multiple di elastomero di silicone. Questi accorgimenti hanno consentito di ridurre drasticamente l’incidenza della rottura protesica e dello sgocciolamento di gel di silicone.
La quarta generazione di protesi mammarie è stata prodotta con ancora più rigide misure di sicurezza, imposte dalla FDA (Food and Drug Administration) e con una più ampia gamma di forme e volumi.
Parallelamente è stato introdotto anche il concetto di protesi anatomiche (o a goccia), che è alla base della quinta generazione di protesi mammarie. Queste protesi anatomiche (Stile 410) sono disponibili con una vastissima gamma di volumi, altezze, larghezze e proiezioni, rendendole assolutamente “su misura” per la paziente.
La sesta generazione di protesi mammarie è costituita dalle cosiddette protesi 510, un’evoluzione tecnica in grado di garantire risultati addirittura migliori. Si tratta di protesi anatomiche costituite da gel doppiamente coesivo, che offrono alla mammella una forma ancora più gradevole, senza creare una prominenza eccessiva in corrispondenza del polo superiore. Trovano indicazione, soprattutto , in alcuni casi specifici, come nelle ricostruzioni mammarie e nella correzione di ptosi di grado moderato.
L’evoluzione delle protesi è stata, pertanto, davvero notevole del corso degli anni. Sono attualmente disponibili, infatti, degli impianti altamente tecnologici, che garantiscono un eccellente risultato estetico e, allo stesso tempo, un’assoluta sicurezza per la paziente.
Le protesi mammarie in gel di silicone si dividono in due grandi categorie:
- Protesi tonde
- Protesi anatomiche (o a “goccia”)
Le prime sono costituite da un gel più soffice; le seconde, dalla forma maggiormente simile a quella della mammella, contengono un gel più coesivo. Tuttavia, attualmente anche le protesi tonde sono disponibili in gel coesivo.
Il principale vantaggio delle protesi tonde risiede nel loro gel dalla consistenza più soffice e quindi più simile a quella dello stesso tessuto mammario, potendosi spostare in modo naturale con i movimenti corporei. Essendo, inoltre, uniformemente tonde, non pongono problemi di posizionamento.
Le protesi anatomiche, invece, in virtù del loro gel più coesivo, consentono un costante riempimento del polo superiore, anche stando in piedi e, mantenendo la loro forma, raramente determinano il fenomeno del wrinkling (pieghe visibili e palpabili dall’esterno), più frequente con le protesi tonde. Inoltre, grazie al gel più coesivo di cui sono costituite le protesi anatomiche, in caso di rottura delle stesse il gel rimane in sede e non si diffonde. Un altro vantaggio è dato dalla maggiore probabilità di successo nella correzione di situazioni come una ptosi di grado moderato o in caso di patologie come la mammella tuberosa (condizioni, cioè, che richiedono una maggiore capacità di riempimento del polo inferiore).
Uno svantaggio delle protesi anatomiche è costituito, talora, da una consistenza un po’ troppo dura e dalla possibile dislocazione (nel caso in cui la tasca che la contiene non sia stata fatta in modo assolutamente precisa). Le protesi anatomiche, infatti, essendo dotate di un verso, a volte possono ruotare, più raramente capovolgersi. Questa evenienza, invece, non si verifica nel caso di protesi tonde.
Le protesi anatomiche trovano grande utilizzo in caso di soggetti molto magri e con mammelle di piccole dimensioni (specie se con un polo inferiore poco sviluppato), in quanto garantiscono un risultato di forma più naturale. Nelle giovani donne magre, infatti, le protesi tonde rendono conto di quell’ aspetto a “palla”, peraltro a volte espressamente richiesto (soprattutto da pazienti giovani). In soggetti che desiderano, invece, un aumento volumetrico in un seno già ben rappresentato, talora l’uso dell’uno o dell’altro tipo di protesi è quasi interscambiabile, garantendo un risultato estetico del tutto sovrapponibile.
Il termine di protesi anatomica sembra quasi suggerire una certa superiorità delle stesse rispetto alle protesi tonde, inducendo spesso le pazienti a ritenere che queste protesi possano garantire un risultato in ogni caso migliore. In realtà, tali protesi non hanno soppiantato quelle tonde. Vi sono, infatti, casi ben precisi in cui la scelta dell’una o dell’altra protesi è quasi obbligata, ma vi è altresì una vastissima gamma di situazioni in cui l’uso dell’uno o dell’altro tipo di impianto è quasi sovrapponibile. Solo un’accurata valutazione della paziente consentirà di scegliere il tipo di protesi più adatta, garantendo il risultato migliore e contenendo, quanto più possibile, i rischi.
Una volta scelta la sede dell’incisione, il passo successivo è quello di scegliere se mettere la protesi “sopra o sotto il muscolo”!
Il muscolo in questione è il muscolo grande pettorale. Sia l’approccio sottomuscolare che quello sovramuscolare sono ampiamente usati, con indicazioni ben precise.
Un importante aspetto da garantire è rappresentato da un’adeguata copertura della protesi, in modo da non rendere visibili i confini della stessa, ottenendo così un risultato più naturale. Il seno è costituito da tre strati di tessuto: il primo è la cute, il secondo è il tessuto adiposo e il terzo, più profondo, è la ghiandola stessa.
- Donne con una spessa copertura mammaria: nelle donne con un seno già adeguatamente sviluppato non è necessario fornire un’ulteriore copertura dal muscolo pettorale
- Donne con una sottile copertura mammaria: in queste esiste un rischio piuttosto elevato di visibilità o palpabilità della protesi, specie col passare del tempo. In tali casi il muscolo pettorale offre un’ulteriore e necessaria copertura per garantire il risultato estetico migliore. Dal momento che il muscolo ha forma triangolare non riesce a coprire l’intera protesi, ma riveste comunque le parti esteticamente più rilevanti e visibili, cioè la porzione superiore e centrale, ben evidente indossando ad esempio un bikini.
VANTAGGI DI UNA PROTESI SOTTOPETTORALE: studi scientifici dimostrano un rischio inferiore di contrattura capsulare connesso con un impianto sottomuscolare (probabilmente perché i movimenti del muscolo forniscono una sorta di continuo massaggio, che contrasta la formazione di una capsula periprotesica eccessivamente rigida). Inoltre, una protesi sottomuscolare fornisce un aspetto più elegante a livello del polo superiore, in quanto vi è una più graduale transizione tra i tessuti della paziente e la protesi stessa.
SVANTAGGI DI UNA PROTESI SOTTOMUSCOLARE: la contrazione del muscolo pettorale può, in qualche misura, determinare piccoli movimenti delle protesi, anche se alcuni particolari accorgimenti (come la più moderna tasca “dual plane”) limita fortemente questa situazione. L’impianto sottomuscolare nei primi giorni risulta un po’ più fastidioso rispetto ad uno sottoghiandolare.
VANTAGGI DI UNA PROTESI SOTTOGHIANDOLARE: il rientro alle normali attività è molto più rapido. In alcuni casi un impianto sottoghiandolare consente di correggere una ptosi mammaria di grado lieve/moderato o di un polo inferiore molto ristretto.
SVANTAGGI DI UNA PROTESI SOTTOGHIANDOLARE: vi è un aumentato rischio che si possano vedere i contorni della protesi (in caso di pazienti molto magre) e che possa, nel giro di qualche anno, condurre ad una ptosi più o meno severa, specialmente se la protesi è di grandi dimensioni.
TECNICA DUAL-PLANE: di più recente introduzione, consente di sommare i vantaggi della protesi sottomuscolare (profilo più armonico nei quadranti superiori e contorni protesici meno visibili), con quelli di una protesi sottoghiandolare (migliore riempimento e proiezione del polo inferiore). Tale metodica consente di liberare le inserzioni muscolari a livello del solco sottomammario, facendo di fatto giacere la protesi in parte sotto il muscolo, in parte sotto la ghiandola (Dual plane, appunto).
Solo un’accurata valutazione preoperatoria, con la registrazione di determinati parametri propri di ogni individuo, consente di definire la tecnica migliore per garantire il massimo risultato.
Per inserire una protesi mammaria, è necessario eseguire una piccola incisione (di solito 4-5 cm) per consentirne il passaggio. Le sedi di incisione maggiormente sfruttate sono le seguenti:
- Solco sottomammario: è attualmente l’incisione maggiormente praticata, consentendo, infatti, di allestire un’adeguata tasca protesica senza interferire e/o attraversare la ghiandola mammaria, evitandone così ogni possibile danno (che potrebbe portare ad una perdita della capacità di allattare). Del resto, l’incisione cade all’altezza del solco fisiologico e, quindi, è normalmente invisibile in pazienti in ortostatismo.
- Areola: l’incisione viene di solito condotta nella metà inferiore dell’areola. Questo tipo di incisione si può eseguire di norma in tutte le pazienti, ad eccezione di quelle che presentano un’areola di piccole dimensioni. Questa via di accesso è preferibile quando si deve effettuare, nello stesso tempo chirurgico, una mastopessi periareolare, in modo da non aggiungere ulteriori cicatrici.
- Ascella: questa metodica, che apparentemente risulta la migliore in quanto non comporta cicatrici sul seno, in realtà presenta diversi inconvenienti come difficoltà di allestimento della tasca (specie nelle porzioni mediali), briglie cicatriziali a livello ascellare (soprattutto se non sono stati attuati degli accorgimenti, come la “plastica a Z”), possibile lesione del nervo intercostobrachiale e possibile interferenza con il drenaggio linfatico.
Le preferenze che può avere la paziente (su suggerimento di amiche, riviste, internet, ecc) devono essere sempre discusse e valutate sulla base della sua specifica situazione anatomica e dei risultati richiesti.
Il latte materno possiede proprietà nutrizionali e immunologiche superiori rispetto a quello in commercio. L’allattamento materno, infatti, sembra essere particolarmente protettivo verso affezioni comuni nei neonati, quali eczema, otite media, anemia da carenza di ferro.
L’allattamento al seno è assolutamente possibile nelle donne con protesi mammarie. Molto importante è, però, sapere (e ricordarsi!) come era il seno prima dell’intervento di mastoplastica. Sebbene le piccole dimensioni iniziali da sole non siano predittive di scarsa produzione di latte, alcuni tipi di mammelle contengono, di base, una scarsa ghiandola mammaria. Queste situazioni includono, ad esempio, i seni tuberosi, l’ipomastia severa e le asimmetrie mammarie. Pertanto, quando il tessuto ghiandolare è scarso in partenza, la ridotta capacità di allattamento non è imputabile alle protesi mammarie, nel frattempo impiantate, ma alla situazione anatomica di base pre-esistente.
Mentre l’accesso dal solco mammario non interferisce affatto con la ghiandola, un’incisione periareolare potrebbe ledere qualche dotto galattoforo, rendendo così più difficoltoso l’allattamento.
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Quando si impianta una protesi mammaria, l’organismo reagisce elaborando attorno ad essa un involucro, denominato capsula. Questo processo accade con qualunque protesi (di anca, di ginocchio, ecc) o oggetto medicale (pacemaker), in quanto rappresenta la normale reazione dell’organismo nei confronti di un corpo estraneo. In alcune donne, però, per motivi non ancora del tutto noti, la capsula ha la tendenza a divenire molto robusta e spessa, finendo con il contrarsi attorno alla protesi stessa. Questo quadro è noto con il termine di contrattura capsulare. La contrattura capsulare può avere diversi gradi di gravità: si distinguono, infatti, 4 stadi, come elaborato dal chirurgo Baker.
- I grado di Baker: il seno sembra del tutto naturale e anche al tatto appare soffice (in questo caso vi è la capsula, ma non è contratta)
- II grado di Baker: il seno appare del tutto normale, ma al tatto può apparire un po’ rigido (contrattura di grado moderato della capsula)
- III grado di Baker: in questo caso il seno non solo è rigido alla palpazione, ma esternamente comincia ad apparire anche un po’ distorto e talora dislocato in alto
- IV grado di Baker: la situazione è la stessa del grado III, ma vi si associa anche dolore dovuto alla progressiva contrazione della capsula
Qualunque sia il grado di contrattura capsulare, non è la protesi che si indurisce o deteriora, ma è la capsula che l’organismo elabora attorno ad essa. Se la protesi viene rimossa, infatti, si presenta soffice come quando è stata inserita. Del resto la contrattura capsulare non causa la rottura della protesi, in quanto la forza è esercitata omogeneamente attorno ad essa.
Il trattamento delle contratture capsulari è, di solito, chirurgico e si avvale degli interventi di capsulectomia oppure di capsulotomia, a seconda del caso specifico. L’incidenza della contrattura capsulare è minore quando la protesi è collocata in sede sottomuscolare, probabilmente perché il continuo massaggio esercitato dal muscolo pettorale in attività, impedisce la formazione di una capsula eccessivamente robusta. La contrattura capsulare si verifica in circa il 5-7% dei casi, ma di questi solo una piccola percentuale sviluppa una contrattura talmente severa da richiedere il trattamento chirurgico. Tra gli approcci per cercare di ridurre l’incidenza della contrattura capsulare ricordiamo il posizionamento della protesi in sede retromuscolare (chiaramente nei casi in cui sia opportuna tale sede di impianto), il ricorso a massaggi (con maggiore frequenza nei primi mesi per mantenere la capsula più elastica) e a particolari prodotti farmacologici anche omeopatici.
Il tumore della mammella costituisce il cancro più comune, in quanto rappresenta il 16% di tutte le neoplasie nelle donne. Dalla fine degli anni Ottanta si osserva una moderata, ma continua tendenza alla riduzione della mortalità per carcinoma mammario (-1,7%/anno), attribuibile ad una più alta sensibilità e anticipazione diagnostica, come anche ai progressi terapeutici.
Anche se molti studi hanno dimostrato che non esiste alcuna correlazione tra inserimento di protesi mammarie e il carcinoma della mammella, le portatrici di protesi mammarie devono sottoporsi, come tutte le altre donne e con la loro stessa frequenza, a prevenzione oncologica.
Per le portatrici di protesi, la mammografia risulta essere lo strumento più efficace nella diagnosi precoce del tumore (sensibilità 85-90%; specificità 90-95 %). In particolare, l’esame mammografico è importante per la visualizzazione e l’individuazione delle patologie associate alla presenza di microcalcificazioni.
Per l’impianto inserito al di sotto del muscolo pettorale, la mammografia non richiede particolari accorgimenti e il tecnico/radiologo non avrà alcuna difficoltà a svolgere l’indagine.
Per le protesi inserite in sede sottoghiandolare o sottofasciale (tecnica piuttosto desueta), l’indagine mammografica può essere completata ugualmente, tramite una particolare manovra (detta manovra di Eklund ), in cui la protesi viene dislocata posteriormente contro la parete toracica e il tessuto mammario protrude anteriormente, risultando maggiormente visibile; in tal modo il tessuto mammario viene esaminato in tutti i suoi punti escludendo parzialmente la protesi. Con la mammografia, le protesi appaiono come delle opacità omogenee, con margini ovviamente ben netti. Con l’ecografia, invece, le protesi appaiono come strutture anaecogene e omogenee. La Risonanza Magnetica è un’indagine di secondo livello, da eseguire dopo mammografia ed ecografia, qualora permangano dei dubbi diagnostici.
Nei casi, invece, in cui vi sia il sospetto della rottura di una protesi, la RM rappresenta la metodica migliore, in quanto consente di distinguere i vari tipi di rottura protesica, nonché il contenuto della protesi stessa (silicone, soluzione salina).
Prima e dopo
